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Prima di chiamare il nutrizionista e fissare una visita dovresti porti una domanda e rispondere con tutta sincerità.
Cosa mi aspetto da una dieta o dal mio nutrizionista?
Chi si rivolge al nutrizionista lo fa per gestire una patologia o per operare un cambiamento che include, nella gran parte dei casi, un miglioramento del proprio aspetto fisico.
Il lavoro è molto complesso perché richiede di lavorare sulle proprie abitudini, lo stile di vita e, anche se non semplice da intuire, il rapporto con se stessi e con il mondo esterno.
Il modo in
cui guardiamo le cose, le modalità con cui costruiamo e coltiviamo i rapporti
affettivi e sociali, lo stile comunicativo che usiamo per interagire con
chi ci circonda, influenzano in modo significativo la nostra relazione con il
mondo esterno. Il modo più efficace per modificare qualcosa nelle proprie
relazioni interpersonali pertanto, non è chiedere all’altro di cambiare, ma
cambiare il proprio atteggiamento nei confronti dell’altro. Non è all’esterno
che bisogna chiedere un cambiamento, me a se stessi. E’ dentro che bisogna
guardare come ricordava lo psicoanalista svizzero C. G. Jung quando scriveva “Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda
all’interno si sveglia“. E’ dentro se stessi che è possibile
trovare la soluzione e, non di rado, anche la radice del problema.
Eppure c’è chi, pur anelando incessantemente un cambiamento, non fa nulla per
provocarlo. Attende passivo che gli eventi scorrano,
lamentandosi però se non lo fanno nella direzione desiderata. Tende a procrastinare
il raggiungimento degli obiettivi e manifesta indignazione per chi si mostra
insofferente alle proprie infruttuose lamentele. Attende che siano gli altri ad
agire e li aspetta al varco se non dovessero farlo nel modo atteso.
Si tratta di coloro che hanno scelto di tatuarsi sulla pelle (probabilmente
non cogliendone la prescrizione paradossale), la massima di Wayne Dyer che
recita “Dare la colpa ad altri è un piccolo e pulito
meccanismo che puoi usare ogni volta che non vuoi prenderti la responsabilità
per qualcosa nella tua vita. Usalo ed eviterai tutti i rischi e impedirai a te
stesso di crescere.”
Il modo in
cui ciascuno (re)agisce agli eventi esterni è comprensibilmente correlato
a numerose variabili di carattere individuale, a fattori temperamentali e
personologici, alle esperienze di vita pregresse. Verso la metà del secolo
scorso, lo psicologo statunitense J. B. Rotter coniò l’espressione “Locus of
control” (letteralmente “luogo di controllo”) per indicare il grado con cui un
soggetto ritiene che gli eventi della sua vita siano frutto delle proprie
azioni (ovvero quanto si percepisca in grado di influenzarli attivamente)
oppure dipendano da fattori esterni alla propria volontà. Semplificando quanto
più possibile, con tale espressione si indica “il luogo” (interno o esterno) in
cui ognuno colloca la ragione dei propri successi e dei propri fallimenti.
Utilizzando questa chiave di lettura e immaginando un continuum, ai due estremi
opposti è possibile rintracciare l’atteggiamento pro-attivo (tipico del
soggetto convinto che attraverso l’azione diretta, l’impegno e lo sforzo
personale sia possibile intervenire sugli eventi esterni) e l’atteggiamento
disfattista (tipico di chi crede che nessuna azione potrà mai risultare
efficace). Tra le tante possibili
sfumature del continuum ve n’è una molto suggestiva, per usare un eufemismo,
tipica di chi tende ad elogiarsi per i successi e ad attribuire all’esterno la
causa dei propri fallimenti.
Superfluo sottolineare che non si tratta di una categoria nosologica, eppure la
realtà clinica (e non solo) è affollata da soggetti che con il loro
atteggiamento improntato all’auto-assoluzione e alla distribuzione di colpe
all’esterno, contribuiscono ad inficiare in modo consistente la rete di
relazioni interpersonali in cui sono inseriti.
Chi ha la
tendenza a incolpare gli altri, se abile sul piano cognitivo,
non di rado si dimostra in grado di compiere un’accurata analisi dei fatti,
individuando criticità, limiti e potenzialità, finendo però immancabilmente con
l’attribuire le cause di ogni fallimento o mancato successo esclusivamente
all’esterno. Che si tratti del partner, dell’insegnante, della dirimpettaia,
del governo o delle scie chimiche.
Si pensi al responsabile aziendale perennemente pronto a incolpare i
sottoposti per scadenze e mancato rispetto delle consegne, incapace però
di fornire chiare indicazioni operative o di migliorare la supervisione
dell’operato del proprio gruppo di lavoro. Oppure si pensi alla mamma che
dinanzi all’ennesimo voto basso della propria figlia punti il dito contro la
sua compagna di banco, troppo loquace e superficiale, rivelandosi al contempo
incapace però di far valere la propria autorevolezza genitoriale, negando alla
figlia concessioni non meritate e invitandola ad assumersi a sua volta, la
responsabilità del proprio insoddisfacente rendimento scolastico.
Tratto tipico dello stile comunicativo e
relazionale descritto è proprio la tendenza alla deresponsabilizzazione.
Qualunque cosa accada, fosse anche nell’ambito di sua competenza, il soggetto
con tali modalità comportamentali, ne parlerà come se la ricerca di una
soluzione non lo riguardasse. Chi lo dovesse ascoltare, avrebbe
l’impressione di guardare un notiziario: un elenco di accadimenti, dettagli,
date, fatti e numeri senza alcuna riflessione sul ruolo da lui ricoperto.
Si pensi ad un’educatrice intenta a relazionare ad un gruppo di genitori
l’esito di un laboratorio scolastico svolto con i loro pargoli e
s’immagini che la formatrice riferisca che i bambini siano incapaci di
portare a termine una consegna o di riporre al proprio posto il materiale
scolastico al termine dell’attività. Sarebbe legittimo, da parte dei genitori
in ascolto, ricevere dettagli in merito all’intervento educativo messo in atto
(ed evidentemente rivelatosi fallimentare), ai provvedimenti assunti, alle
azioni correttive proposte; sarebbe altresì utile agli stessi ricevere queste
informazioni per concordare una linea educativa condivisa, affinché i piccoli
non ricevano messaggi ambigui o incoerenti tra loro. Ebbene, se l’educatrice
avesse le modalità comunicative e relazionali sopra descritte,
restituirebbe una resocontazione dei fatti che la collocherebbe “fuori”
dal sistema; come se quel contesto non le appartenesse, come se
l’insegnamento delle regole nello spazio laboratoriale non fosse di sua
competenza, come se non fosse richiamata dal suo ruolo e dalle sue competenze
professionali ad un’azione educativa. Come se le responsabilità (e le colpe)
fossero solo del disimpegno delle famiglie, della pigrizia delle nuove
generazioni, delle nuove tecnologie e del’uso precoce dei social network. Si
sentirebbe estranea, si sentirebbe “fuori”. Proprio come il locus of control
dei suoi insuccessi.
Quando il tipo di atteggiamento fin qui descritto si
coniuga con tratti di personalità narcistico/istrionici, le modalità
comportamentali che ne seguono possono seriamente compromettere la qualità
delle relazioni affettive e sociali, traducendosi in comportamenti francamente
manipolativi fondati su critiche distruttive e induzione al senso di
colpa.
Si pensi alla madre che, abdicando alle sue funzioni genitoriali, agisce
mediante il ricatto affettivo sul figlio “colpevole” di non essere in grado di
raggiungere un determinato obiettivo, senza però fornirgli gli strumenti per
realizzarlo, senza offrirgli supporto, finanche senza mostrare alcuna capacità
di discernere tra ciò che davvero sarebbe il suo bene e quelle che lo
psicanalista C.G. Jung chiamerebbe “le proprie proiezioni di vita non vissuta”.
La realtà clinica offre indubbiamente un punto di osservazione privilegiato per
analizzare tale atteggiamento. Premesso che, come insegna lo psicoterapeuta
Russ Harris “Ci sono solo due tipologie di coppie al mondo:
quelle che litigano e quelle che non conosci molto bene”,
s’immagini una coppia che richiede una consulenza per superare una
difficoltà relazionale; si ipotizzi poi che nel corso della seduta uno dei
due tiri fuori uno smartphone con cui, dopo aver ripreso stralci di
vita quotidiana del partner, mostri al professionista il video nel tentativo di
triangolarlo mostrandogli tutte le manchevolezze e l’inadeguatezza dell’altro.
Ecco, chi pratica l’arte della
deresponsabilizzazione, metaforicamente si rifiuta di stare DENTRO il video e
di analizzare ANCHE il proprio contributo alla dinamica relazionale
che invece è sempre frutto della catena di azione/reazione di tutti gli
attori coinvolti.
Dal punto di vista psicoanalitico, si tratta di soggetti che usano in modo
consistente il meccanismo di difesa della proiezione al fine di spostare sul
mondo esterno le conflittualità interiori (poiché gli risulta più facile
difendersi dall’angoscia reale proveniente dall’esterno, che non da quella
nevrotica proveniente dalle ingerenze del Super-Io!). Incapaci di mettersi
in discussione, tendono a riversare sull’altro la propria aggressività latente
e ad usare le reazioni altrui come conferma all’impossibilità di attivarsi per
trovare una soluzione e divenire parte attiva del gioco relazionale in atto.
Tendono inoltre ad evitare la comunicazione diretta e a sabotare ogni proposta
relazionale costruttiva a favore di modalità manipolative attraverso le
quali far decantare le proprie frustrazioni. E quando qualcuno osa, come si suol dire,
giocare a carte scoperte e gli restituisce la contraddizione tra le
loro critiche e la mancanza di pro-attività, la frustrazione tende a
tramutarsi in aperta aggressività. Sarà per questo che il
rinomato psicologo statunitense Carl Rogers, padre fondatore della
Psicologia Umanistica, amava ripetere che “La sola persona che non può
essere aiutata è quella che getta la colpa sugli altri.”